Le mura del manicomio, 2024
Performance 16’
with Mattia Ozzy B.
ph Nicola Morittu
Ruben Montini: le pareti della casa d’igiene mentale, dell’amore e della rovina.
Sono tre gli elementi protagonisti a pari ruolo de Le mura del manicomio: l’Artista (Ruben Montini, ideatore, attore e protagonista della tragica pièces teatrale), l’Assistente (Mattia Ozzy B. in tuta blu e lo pseudo-Mattia in tuta nera, pittori, allievi di bottega, artefici dei dipinti e del dripping, esecutori dei graffiti a spray e "braccia armate" del pensiero dell’artista) e la Pittura (nel suo divenire, sia come disfacimento metaforico di una condizione assurda e border line, sia come dramma dell’impossibilità generatrice).
Questa è un’opera monumentale, non solo per il formato, ma è come un ciclo di affreschi in un chiostro, è come un grande altare dedicato alla vita di un santo e al suo martirio, è come l'autogenerarsi e l’autodistruggersi in un continuum produttivo, è paradigma dell’esistenza umana vissuta e consumata all’interno di un luogo claustrofobico com'è l’atelier dell'artista.
L’opera è una performance e la performance è un micro spettacolo teatrale, dall’impossibile classificazione, con tempi e pause ben scanditi, entrate in scena ad effetto e con un finale a sorpresa. Le tempistiche ben studiate raccontano cinque storie differenti i cui attori usano le stesse dinamiche per tutti e cinque i racconti. Gli attori, quasi sempre ripresi di schiena, assurgono a emblemi senza riconoscibilità e solo alla fine del video disvelano la loro identità.
Il tempo ha un valore importante in quanto la creazione è messa a confronto con la distruzione e se la prima ha una durata ben definita, piuttosto lunga e articolata, la seconda è invece fulminea e inattesa. Costruire quindi è molto più complesso che distruggere, il fare ha un valore temporale differente dal disfare, la costruzione implica amore e dedizione, la distruzione è improvvisa e incontrollata e sottintende violenza e odio. Le cinque tappe dell’opera sono come cinque pièces differenti. Una sorta di diario elaborato visivamente sulla vita e i desideri di una persona e di chi gli potrebbe stare accanto. Il video è anche la registrazione di una “passione", una passione in stazioni e ogni stazione è una tappa di un calvario, di una salita al Golgota o di una discesa agli inferi, una tappa come le immense e teatrali cappelle dei Sacri Monti barocchi in cui teatro, performance e quotidianità si fondono per consegnarci un messaggio filosofico vitale e concettuale. Sono anche altrettante stanze come quella di Bill Viola in Catherine’s Room (2001), tableaux vivant o pantomime, siparietti e micro cortometraggi e il significato temporale ha una valenza fondamentale per la comprensione di quest’opera. La sua costruzione è ben scandita, seppur concitata, e il disegno a spray che si costruisce a poco a poco sul muro e sul corpo dell’artista ha tempistiche precise, estetiche determinate da canoni occidentali peculiari a qualsiasi tipo di pittura, la prospettiva, seppur assonometrica, è quella di Giotto a Padova o ad Assisi, i fiori e le piante sono quelle di Sassetta e Beato Angelico, quindi un tempo allungato perché la pittura è fatta così, con tempistiche e tecniche codificate e precise che richiedono concentrazione e sapere. Poi interviene una forza estranea, arriva un “folle" in tuta nera (alter ego di quello in tuta blu) che, in un gesto iconoclasta, schizofrenico e bipolare, riversa sulla scena un oceano di inchiostro, come un’onda generata da uno tsunami devastatore, come se il fantasma di Shiraga intervenisse improvvisamente nell'opera e con i suoi happening distruttori riversasse su tutta la bella scena una bomba di colore devastante. Il tempo quindi fa incontrare improvvisamente diversi e differenti periodi pittorici: l'aggraziato Rinascimento italiano e la vivifica Action Painting americana, la formale composizione preraffaellita e l’incontrollabile dimensione delle pratiche Gutai.
Tutto l’evolversi del racconto è lontanissimo dall’Azionismo viennese, da Gina Pane e da Marina Abramovich anche se il dolore, la resistenza, la forza e la sottomissione sono presenti sul corpo dell’artista ma sono interni e introspettivi, psicologici. Quel colore nero come acqua sporca riversata sul corpo di Montini è anche una doccia che lava definitivamente un sogno di “regolarità” irraggiungibile e inauttuabile. Quella “doccia fredda” risveglia l’artista e lo spettatore dal sogno della “normalità”, dalla speranza di far avverare un’idea di omologazione della condizione omosessuale in quella eterosessuale e, fortunatamente (!) l’artista ci riporta alla realtà che non vuole e non deve essere fatta di sogni e di desideri ingannevoli che non rendono felici ma incompleti, in fondo quelle bellissime e tragiche tracce di colore sulle pareti, sul corpo e sul viso dell’artista non sono altro che lacrime attive a dissolvere il velo di ipocrisia che la parola “normalità” vorrebbe farci vivere in una vita disegnata e illustrata da altre volontà diverse dalle nostre. La pittura stereotipata viene quindi cancellata da una pittura casuale, violenta, vigorosa e differente in questo suo stato di dripping anarchico.
Allora lo spettatore e l’artista si possono chiedere infine a quale delle due realtà vorrebbero appartenere? A quella edulcorata della finta felicità o a quella oggettiva della verità? Personalmente non ho dubbi.
È poi bello e salvifico il gesto amorevole che il graffitista e pittore compie sul volto dell’artista in cui, in un contesto sadomasochista, il volto annerito viene lavato e ripulito. La faccia di Montini ritrova la sua realtà. La faccia ritorna pura, come un volto di Piero della Francesca. La pulizia è come un lavacro dei piedi che Cristo fa ai suoi apostoli o come quello della Vergine che lava il corpo del figlio morto.
Albergano in quest’opera diversi livelli di lettura che, pur nella loro complessità e sovrapposizione, ci appaiono semplici, evidenti, lampanti. Tutte le scene sono un esempio codificato della nostra esistenza ed è per questo che il messaggio dell’artista arriva diretto e corroborato dall’esperienza della nostra vita vissuta. L’opera parla senza il bisogno di parole inutili o di proclami urlati, la sua estetica e la sua dinamica sono assolutamente evidenti e chiari.
L’immobilità dell’artista, nelle sue congelate posture (come nei fotoromanzi in cui i luoghi comuni dell’amore vengono esemplificati in pose statiche e statuarie), è contratta e innaturale, determinata nella sua banalità, nel suo stereotipo convenzionale e nel significato dei gesti, per divenire paradigma di tutta la gestualità pittorica e fotografica degli ultimi due secoli passati.
Ti amo e quindi ti abbraccio, ti desidero e quindi ti tocco, voglio una famiglia e quindi ti sposo, facciamo dei figli e poi li portiamo al parco in passeggino. Situazioni comuni in luoghi comuni, anche se i protagonisti sono sempre maschili, affinché questa rivoluzione sia una rivoluzione attuata e definitiva, almeno in occidente, almeno nelle nostre menti, almeno nella nostra storia dell’arte.
Andrea Busto
Video by Giulia Lenzi